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"claro desnudo y contundente "

Barbari e Barbaresco

Grapes D.D. – Andy Warhol

I Barbari – Alessandro Baricco © ed. Fandango Libri – Roma

[…] Per anni il vino è stata un’abitudine di alcuni, pochi paesi: era una bevanda con cui ci si dissetava e con cui ci si alimentava. Uso diffusissimo e statistiche di consumo agghiaccianti. Producevano fiumi di vinello da tavola e poi, per passione e cultura, si lasciavano andare all’arte vera e propria: e allora tiravano fuori i grandi vini. Lo facevano, quasi esclusivamente, francesi e italiani. Nel resto del mondo, è bene ricordarlo, bevevano altro: birra, superalcolici e cose anche più strane. Del vino non ne sapevano niente.

Ecco cosa successe dopo la Seconda guerra mondiale. Gli americani tornati dai campi di battaglia francesi e italiani si portarono a casa (oltre a un sacco di altre cose) il piacere e il ricordo del vino. Era qualcosa che li aveva colpiti. Noi iniziammo a masticare chewing-gum e loro iniziarono a bere vino. Cioè, gli sarebbe piaciuto berlo. Ma dove lo trovavano?

Detto fatto. Qualche pazzo americano si mise in testa di provare a farlo. E qui inizia la parte interessante della storia. Se volete un anno, un nome e un posto, eccoli: 1966, Oakville, California. Il signor Mondavi decide di fare il vino per gli americani. Nel suo genere, era un genio. Partì con l’idea di copiare i migliori vini francesi. Ma non gli sfuggì che andavano un po’ adattati al pubblico americano: da quelle parti l’artista e il funzionario del marketing sono la stessa persona. Era un pioniere, non aveva quattro generazioni di artisti del vino alle spalle, e faceva vino dove nessuno aveva mai pensato di produrre altro che pesche e fragole. Insomma, non aveva tabù. E fece, con una certa maestria, quello che voleva.

Sapeva cha il pubblico americano era (per quanto ai vini) profondamente ignoranti. Era aspiranti lettori che non avevano mai aperto un libro. Sapeva anche che era gente che mangiava spesso in maniera molto rudimentale, e che non avrebbe avuto la pressante necessità di trovare il bouquet giusto da abbinare a un confit de canard. Se li immaginò con il loro bel cheeseburger e una bottiglia di Barbaresco e capì che non poteva funzionare. Capì che, se volevano avere del vino, era per berlo prima di mangiare, come un drink, e capì che, se l’alternativa era un superalcolico, il vino non avrebbe dovuto deluderli: e se l’alternativa era una birra, il vino non avrebbe dovuto spaventarli. Era un americano e così sapeva, con lo stesso istinto che altri misero a frutto a Hollywood, che quel vino doveva essere semplice e spettacolare. Un’emozione per chiunque. Sapeva tutte queste cose e, evidentemente, aveva un qualche talento: voleva quel vino e lo fece.

Satyricon – La cena di Trimalcione (F. Fellini)

Gli andò talmente bene che quella sua certa idea di vino è diventata un modello. Non ha un nome, così, per capirsi. Gliene do uno io. Vino hollywoodiano. Ecco alcune sue caratteristiche: colore bellissimo, gradazione abbastanza spinta (se uno viene dal superalcolico, del dolcetto non sa cosa farsene), gusto rotondo molto semplice, senza spigoli (senza tannini fastidiosi né acidità difficili da domare); al primo sorso c’è già tutto: dà una sensazione di ricchezza immediata, di pienezza di gusto e profumo; quando l’hai bevuto, la scia dura poco, gli effetti si spengono; interferisce poco con il cibo, ed è pienamente apprezzabile anche solo risvegliando le papille gustative con qualche stupido snack da bar; è fatto per lo più con uve che si possono coltivare quasi ovunque: Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon. Dato che è manipolato senza troppi timori reverenziali, ha una personalità piuttosto costante, rispetto alla quale la differenza delle annate diventa quasi trascurabile. Voilà.

Con questa idea di vino, il signor Mondavi e i suoi adepti hanno ottenuto un risultato singolare: gli Stati uniti oggi consumano più vino che l’Europa. In trent’anni hanno quintuplicato le loro bevute di vino (si spera abbiano ridotto quelle di whisky). E questo è niente: il fatto è che il vino hollywoodiano non è rimasto un fenomeno americano ma, proprio come Hollywood, è diventato un fenomeno planetario: non si erano mai sognati di farlo, ma adesso bevono vino anche, per dire, in Cambogia, Egitto, Messico, Yemen, e posti anche più assurdi. Che vino devono? Quello hollywoodiano. Neanche Francia e Italia, le due patrie del vino, ne sono uscite indenni: non solo bevono in gran quantità il vino hollywoodiano, ma si sono messe a produrlo.

Si sono adattate, hanno corretto due o tre cose, e l’hanno fatto. Anche molto bene, bisogna dire. Adesso nelle enoteche di una città italiana è facile trovare l’italiano che, prima di cena, mangiando due patatine e salatini piccanti, beve il suo vino hollywoodiano fatto in Sicilia. È già qualcosa che non lo beva direttamente a canna, guardando alla tivù l’ultima partita di baseball.

I barbari!

Se andate da un vecchio maestro del vino, uno di quei francesi o italiani che sono cresciuti in famiglie in cui l’acqua a tavola non c’era, e che vivono sulla stessa collina in cui da tre generazioni la loro famiglia va a dormire nell’odore di mosto, e che conosce la propria terra e le proprie uve meglio del contenuto delle proprie mutande; se andate da un maestro in cui vive una sapienza secolare e una intimità assoluta col gesto di fare il vino; se andate da lui e gli fate bere un bicchiere di vino hollywoodiano (magari quello prodotto da lui stesso) e gli chiedete cosa ne pensa, ecco la sua risposta: bah. Alle volte articolano un po’ di più, ma insomma bisogna interpretare un po’.

W. Marstrad 1847

Interpreto così: non gli interessa, è una cosa divertente ma di nessuna importanza, ci ammirano la furbizia, magari, ma scuotono la testa pensando a quelli che se lo berranno, e non sanno cosa si perdono. Poi vanno di là a rifarsi la bocca con un Barolo d’annata. È come far salire Schumacher su un go-kart, come far ascoltare Let it be a Glenn Gould, come chiedere a De Gasperi un parere sull’UDC, come chiedere a Luciano Berio cosa gli sembra di Philip Glass. Magari non lo dicono, ma lo pensano: simpatici, questi barbari.

Si potrebbe pensare che sia la solita arroganza dei vecchi potenti, una banale sindrome da après moi le déluge. Ma il vino è una cosa relativamente semplice, non è la musica o la letteratura, per cui potete fare la prova, potete bere e verificare, se avete un minimo di consuetudine con quel gesto. Prendete un Barbaresco di alto livello e bevete: facilmente sentirete una serie di sensazioni se non sgradevoli, almeno faticose.

Facilmente vi verrà da cercare la sponda di un qualche cibo proprio per ammortizzare quelle sensazioni. Al sorso dopo sarà già tutto cambiato (c’avete messo di mezzo, che so, un arrosto). E simultaneamente il primo sorso sta ancora lavorando e voi capite che gustare il vino è una faccenda che non riguarda tanto il primo sorso, o gli istanti in cui lo bevete, ma tutto il tempo dopo, la storia che il vino vi racconta dopo. Per tutta la cena fate un viaggio tra sensazioni che cambiano e vi impegnano, in qualche modo, e vi ricompensano, ma con misura e con uno strano, sofisticato, sadismo. Quando vi alzate, vi spiegano che quello era un Barbaresco di una certa annata e di un certo podere: una delle tante possibilità. E le altre possibilità sono altri mondi, altre scoperte, altri viaggi. Roba da rimanerci intrappolati e risvegliarsi tempo dopo con venti chili di più e una insidiosa propensione alle vacanze enogastronomiche.

Se poi tornate al vino hollywoodiano, ne scegliete uno (magari esagero, ma sono talmente simili che potete scegliere quasi a caso) e tranquilli ve ne sorseggiate un bicchiere, seduti davanti a un’enoteca piacevole, capirete molte cose. Vi piacerà, sarete felici di stare lì, e, se non siete raffinati e colti bevitori, avrete perfino l’impressione di aver trovato il vino che avevate sempre cercato. Ma è indubbio che è un’altra cosa. Go-kart, se capite cosa voglio dire. E ve lo dice uno che piuttosto di fare una vacanza enogastronomia si spara un villaggio vacanze alle Canarie (be’, esagero: non ne sarei capace veramente…).

Vino senz’anima. Nel suo piccolo, il microcosmo del vino descrive l’avvento, a livello planetario, di una prassi che, salvando il gesto, sembra (ho detto sembra) disperderne il senso, la profondità, la complessità, l’originaria ricchezza, la nobiltà, perfino la storia. Una mutazione molto simile a quelle che cercavamo. Vogliamo provare a studiarla un po’ più in profondità? Si imparano un sacco di cose, avendo la pazienza di farlo.

– Se una cosa vende molto, vale poco.

Certo “barbari” è una parola un po’ forte per definire i consumatori di vino hollywoodiano, ma, come dicevamo, un certo svilimento del vino c’è, nelle loro scelta: e il loro moltiplicarsi in progressione geometrica fa pensare a un effettivo svuotamento di una cultura raffinata e complessa. L’avvento di una forma di (elegante) barbarie.

Ora. Quel che mi piace nel saccheggio di questo villaggio periferico è che è abbastanza piccolo e quindi è più facile studiare come siano andate, effettivamente, le cose. Così si scopre, ad esempio, che una certa perdita dell’anima è, qui, il risultato di una serie di piccoli ma significativi movimenti di truppe, per così dire. È una sorta di evento che di compone di innumerevoli sotto eventi simultanei. Provo a descrivere quelli che riesco a scorgere io.

Il primo è forse quello più facile da vedere. Il calo della qualità ha coinciso con un aumento della quantità. Da quando c’è in circolazione un vino semplice e spettacolare, ci sono in giro molte più persone che bevono vino. In questo caso, come in molti altri, la perdita dell’anima sembra essere il prezzo da pagare per espandere un business altrimenti in difficoltà. Semplice: commercializzazione spinta uguale perdita dell’anima. È un punto importante: lì trova fondamento uno dei grandi luoghi comuni che da sempre covano sotto la superficie della paura dei barbari: il pensiero che loro siano l’avidità contrapposta alla cultura; la certezza che si muovano per una ipertrofica, quasi immorale, sete di guadagno, di vendite, di profitti. (Vale forse la pena di ricordare che è stato questo uno dei punti su cui, storicamente, è fiorito l’odio razziale europeo per gli ebrei: si immaginavano una guerra sotterranea in cui una cultura alta e nobile era costretta a lottare con il cinismo avido di un popolo a cui interessava solo l’accumulo di denaro.) È un punto importante anche per un’altra ragione: nasce da lì una deduzione logica infondata, ma comprensibile e molto diffusa: se una cosa vende molto, vale poco.

L’adesione irrazionale a un principio del genere è probabilmente uno dei peccati capitali di ogni grande civiltà nella propria fase di decadenza. Ci torneremo, perché è un argomento interessante, per quanto delicato. Ma per intento mettiamo da parte questo indizio suggerito dalla storia del vino: l’anima si perde quando si punta a una commercializzazione spinta.

Altro movimento: l’innovazione tecnologica. Suonerà assurdo, ma niente di tutto quello che ho raccontato sarebbe probabilmente successo senza l’invenzione dell’aria condizionata. Spiego. Perché adesso fanno vino (hollywoodiano) in Cile, Australia, California e posti anche più assurdi, mentre una volta lo facevano solo francesi e italiani? Di solito si tende a pensare che la terra posseduta da francesi e italiani fosse l’unica adatta alla coltivazione di vitigni giusti: il resto era sapere artigianale sommatosi nel tempo. Da qui l’idea di un’aristocrazia del vino, ben piantata sul privilegio delle sue preziosissime terre. Ma questo è, per lo più, un mito. In realtà, terra per coltivare chardonnay, cabernet sauvignon e merlot ce n’è a bizzeffe e in molte regioni del globo. E allora cosa li fermava? In parte la sudditanza al mito, sicuramente. La stessa ragione per cui sembra impossibile allevare bufale altrimenti che in Campania, e quindi niente mozzarella hollywoodiana. Ma in parte era invece una questione tecnica. Il punto delicato, nella fabbricazione del vino, è quello della fermentazione. L’uva può anche maturare bene a temperature molto alte, ma la fermentazione, se provi a farla in un caldo bestiale, o in una temperatura che sale e scende, si trasforma in un casino. E fare un vino come si deve diventa impossibile. Ma se hai l’aria condizionata? Allora sì, lo puoi fare. Fermentazione controllata, si chiama. La temperatura la decidi tu: che ti frega se sei in mezzo al deserto? Così quella che sembrava un’arte riservata a un’aristocrazia terriera di antico lignaggio europeo diventa una pratica a disposizione di molti: su terre molto meno care: con artisti che non vengono da generazioni di maestri: con inventori che non hanno tabù. Facile che ti nasca un vino hollywoodiano. Riassumendo il microevento: c’è una rivoluzione tecnologica che d’improvviso rompe i privilegi della casta che deteneva il primato dell’arte. Memorizzate e mettete da parte.

Altro evento. Il successo del vino hollywoodiano nasce anche da una rivoluzione linguistica. Fino a vent’anni fa a parlare di vino, a giudicarlo, erano per lo più inglesi, o comunque europei. Erano pochissimi, autorevolissimi, e scrivevano in modo talmente raffinato e sapienziale che a capirli erano davvero in pochi. Una casta di critici sublimi. Poi venne Robert M. Parker. Parker è un americano che si è messo a scrivere di vini con un linguaggio semplice e diretto. Tra l’altro ha iniziato a dire apertamente una cosa che sotto sotto molti pensavano, e cioè che tanti vini francesi, idolatrati, in realtà erano imbevibili, o giù di lì. Troppo complessi, macchinosi, inaccessibili. Più colti che buoni, diciamo. Questione di gusti, si potrebbe dire: ma lui ufficializzava un tipo di gusto che non era solo suo, era comune a milioni di persone, nel mondo, soprattutto quelle che non avevano una grande cultura enologica: americani in testa. La cosa importante, comunque, è che le cose che aveva da dire le disse in un’altra lingua, che c’entrava poco coi sublimi critici europei. La sua piccola rivoluzione è sintetizzata in questo orrore: si mise a dare i voti ai vini. Adesso la cosa vi parrà normale, ma quando lui iniziò a farlo non lo era affatto: credereste a un critico letterario che dà i voti ai grandi classici della letteratura? Flaubert 8; Céline 9 e mezzo; Proust 6 (troppo lungo). Non ha il sapore di una barbarie? E tale dovette sembrare all’aristocrazia del vino europea. Ma il fatto è che in quel modo la gente finalmente iniziava a poter capire. Si orientava. Lui dava (dà) voti dal 50 al 100. C’è gente che ancora oggi entra in un’enoteca e chiede “un 95, grazie”. Per dire. Era una nuova lingua: per certi versi avvilente, ma funzionava. Con quella lingua Parker ha contribuito significativamente a imporre a livello planetario l’amore per il vino hollywoodiano: non in malafede, gli piaceva davvero, e lo disse: in un modo che la gente poteva capire. In un certo senso, lo stesso vino hollywoodiano si è allineato a questa semplificazione linguistica, capendo che lì c’era una porta aperta da attraversare. Per cui, ad esempio, i vini hollywoodiani hanno un nome facilmente memorizzabile, e non richiedono, per come sono fatti, una particolare attenzione dell’annata. Vi sembrerà poco, ma prima di Parker dovevate entrare in un’enoteca e chiedere un Barolo, specificare il nome del produttore, aggiungere il nome di un podere particolare, e concludere in bellezza specificando l’anno: roba che dovevi prepararti a casa, prima di uscire. Dopo Parker, se proprio non siete così grezzi da chiedere un 95, tutto quello che avete da fare è dire un nome. La Segreta, grazie (è un esempio, non un pubblicità). Non c’è molto altro. Non siate così snob da non capire che è una piccola rivoluzione enorme: se si potessero chiedere in quel modo i libri, quanta più gente entrerebbe nelle librerie e comprerebbe libri? (infatti se si tratta giusto di dire “Codice da Vinci”, lo fa). Dunque, nuovo indizio: i barbari usano un lingua nuova. Tendenzialmente più semplice. Chiamiamola: moderna.

Altro indizio. Il vino hollywoodiano è semplice e spettacolare. Alcuni critici lo liquidano con una parola orribile ma efficace: piacione. Quasi sempre si sottolinea come si tratti di un vino colpevolmente facile. Spesso si allude in modo pesante alla manipolazione che ci deve essere dietro: è un vino “spinto”, dicono. Provo ad articolare in un modo più elegante: dispiace, in quel vino, il fatto che cerchi la via più breve e veloce per il piacere, anche a costo di perdere per strada pezzi importanti del gesto del bere. Usando termini romantici, e quindi pienamente nostri: è come se si sostituisse all’idea di bellezza quella di spettacolarità; è come se si privilegiasse la tecnica all’ispirazione, l’effetto alla verità. Il punto è importante proprio per il tipo di evidenza che assume in una cultura ancora fortemente romantica come la nostra: quel vino nega uno dei principi dell’estetica che ci è propria: l’idea che per raggiungere l’alta nobiltà del valore vero di debba passare per un tortuoso cammino se non di sofferenza quanto meno di pazienza e apprendimento. I barbari non hanno questa idea. Nel suo piccolo, dunque, il caso del vino hollywoodiano ci fa vedere un altro microevento, tutt’altro che insignificante: la spettacolarità diventa un valore. Il valore. Ne ho ancora un paio, di eventi. Resistete. L’imperialismo. Si potrebbe parlare di globalizzazione, ma in questo caso mi sembra più preciso “imperialismo”. Il vino hollywoodiano si è imposto nel mondo anche per la ragione ovvia che è di matrice americana. Puoi inventarti tutte le ragioni raffinate che vuoi, ma alla fine, se vuoi capire come mai oggi nello Yemen bevono vino hollywoodiano, e in Sudafrica producono vino hollywoodiano e perfino nelle Langhe lo fanno, la risposta più semplice è: perché la cultura americana è la cultura dell’Impero. E l’Impero è ovunque, anche nelle Langhe. Può sembrare uno slogan irrazionale, ma diventa molto pratico se pensi a tutte le catene di alberghi americane, e vedi la loro carta dei vini, e quando la apri ci trovi quasi soltanto vino hollywoodiano. È così, senza cattiveria, ma con mezzi formidabili, che si può anche arrivare a suggerire (imporre?) un certo gusto a tutto il mondo. Se le olive ascolane le avessero inventate in Nebraska, facilmente adesso le mangerebbero anche nello Yemen. Dunque non sottovalutiamo anche questo indizio: nelle parole d’ordine dei barbari risuona il morbido diktat dell’Impero.

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